lunedì 29 settembre 2014

FILOSOFIA DELLO SPORT - Lo sport come phármakon



Una sostanza tossica può salvare. I doppi sensi e le contraddizioni sembrano essere delle caratteristiche dell’esistenza; tutta. Il phármakon era, nel mondo ellenico, sinonimo di veleno e nello stesso tempo rimedio, un antidoto come cura del male e del danno che quel veleno procurava all’uomo. È stato il filosofo francese Jacques Derrida, che ha messo a braccetto lo sport con il phàrmakon racchiudendoli in un involucro: quello del decostruzionismo con il quale lo sport, come il phármakon, vengono analizzati come concetti che si svelano nella loro essenza mediante un unico procedimento secondo il quale è sempre il contesto a dare il significato del concetto.
Sulla base di questa analisi lo sport rappresenterebbe un termine che di per sé non esporrebbe un significato definito ed univoco, ma neutro, né positivo né negativo. Dal veleno ci si può liberare con il contro veleno. Questa equidistanza, dal bene come dal male, non permette di attribuire ai due termini un’unica interpretazione. È come dire: è il contesto che da un dato senso all’azione. Lo sport non rappresenta di per sé e a priori un concetto positivo e neppure negativo, ma si muove sempre orientandosi tra i due poli opposti di significato, uno positivo ed uno negativo, il cui orientamento dipende sempre dal contesto e dalla finalità che, attraverso l’interpretazione e l’azione, si vuole dare ad esso. Apriamo ora la mente verso la finalità educativa dello sport: è il contesto educativo e la sua finalità a dare alla pratica sportiva quello che riteniamo sia il suo significato ed il suo valore intrinseco positivo, socialmente condiviso e accettato, perché volto al bene della comunità ed al miglioramento delle relazioni sociali tra i suoi membri. Questo valore viene spesso invece solitamente attribuito a priori alla pratica sportiva senza venire a conoscenza delle aperture logiche e filosofiche che portano all’attribuzione di tale valore. La decostruzione mostra che il bene e il male nello sport convivono sempre, così come valori e disvalori, e sta al contesto ed all’interpretazione di coloro che agiscono all’interno della cornice sociale e culturale di questa pratica a farli emergere di proposito. Nello sport possiamo dunque ritrovare la dicotomia tra abilità e virtù, tra téchne e areté  (come direbbe Aristotele). Il valore etico e morale di un’abilità non sta in se stessa, ma nei fini che essa intende perseguire e per cui viene utilizzata. Nello sport le abilità e le competenze tattiche, strategiche o atletiche, dimostrate nella competizione pilotano alla vittoria. Filosoficamente, ad esempio, non possiamo conquistare la vittoria o il successo nella competizione o nella gara sportiva come prova della virtù e quindi come un bene per l’umanità e la società. Insomma, lo sport e la competizione non sono di per sé valori ed i valori o il comportamento morale che lo sport e la pratica sportiva possono generare non sono mai il risultato della mera applicazione di teorie di apprendimento, regole o principi propri esclusivamente dello sport. A pensare invece che Bruce Lee ha detto: “Devo tutto alle arti marziali, come attore, come padre, come artista, come marito, come essere umano ho imparato tutto dalle arti marziali.

Cristina Longo 

Nessun commento:

Posta un commento