Una sostanza tossica può
salvare. I doppi sensi e le contraddizioni sembrano essere delle
caratteristiche dell’esistenza; tutta. Il phármakon era, nel mondo
ellenico, sinonimo di veleno e nello stesso tempo rimedio, un antidoto come
cura del male e del danno che quel veleno procurava all’uomo. È stato il
filosofo francese Jacques Derrida, che ha messo a braccetto lo sport con il
phàrmakon racchiudendoli in un involucro: quello del decostruzionismo con il
quale lo sport, come il phármakon, vengono analizzati come concetti che si
svelano nella loro essenza mediante un unico procedimento secondo il quale è
sempre il contesto a dare il significato del concetto.
Sulla base di questa
analisi lo sport rappresenterebbe un termine che di per sé non esporrebbe un
significato definito ed univoco, ma neutro, né positivo né negativo. Dal veleno
ci si può liberare con il contro veleno. Questa equidistanza, dal bene come dal
male, non permette di attribuire ai due termini un’unica interpretazione. È
come dire: è il contesto che da un dato senso all’azione. Lo sport non
rappresenta di per sé e a priori un concetto positivo e neppure negativo, ma si
muove sempre orientandosi tra i due poli opposti di significato, uno positivo
ed uno negativo, il cui orientamento dipende sempre dal contesto e dalla
finalità che, attraverso l’interpretazione e l’azione, si vuole dare ad esso.
Apriamo ora la mente verso la finalità educativa dello sport: è il contesto
educativo e la sua finalità a dare alla pratica sportiva quello che riteniamo
sia il suo significato ed il suo valore intrinseco positivo, socialmente
condiviso e accettato, perché volto al bene della comunità ed al miglioramento
delle relazioni sociali tra i suoi membri. Questo valore viene spesso invece
solitamente attribuito a priori alla pratica sportiva senza venire a conoscenza
delle aperture logiche e filosofiche che portano all’attribuzione di tale
valore. La decostruzione mostra che il bene e il male nello sport convivono
sempre, così come valori e disvalori, e sta al contesto ed all’interpretazione
di coloro che agiscono all’interno della cornice sociale e culturale di questa
pratica a farli emergere di proposito. Nello sport possiamo dunque ritrovare la
dicotomia tra abilità e virtù, tra téchne e areté (come direbbe Aristotele). Il valore etico e
morale di un’abilità non sta in se stessa, ma nei fini che essa intende
perseguire e per cui viene utilizzata. Nello sport le abilità e le competenze
tattiche, strategiche o atletiche, dimostrate nella competizione pilotano alla
vittoria. Filosoficamente, ad esempio, non possiamo conquistare la vittoria o
il successo nella competizione o nella gara sportiva come prova della virtù e
quindi come un bene per l’umanità e la società. Insomma, lo sport e la
competizione non sono di per sé valori ed i valori o il comportamento morale
che lo sport e la pratica sportiva possono generare non sono mai il risultato
della mera applicazione di teorie di apprendimento, regole o principi propri
esclusivamente dello sport. A pensare invece che Bruce Lee ha detto: “Devo
tutto alle arti marziali, come attore, come padre, come artista, come marito,
come essere umano ho imparato tutto dalle arti marziali.
Cristina Longo
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